lunedì 23 luglio 2012

giovedì 21 giugno 2012

Una polemica: Caro 3D, quanto me costi!

Una sala da multisala
Avete avuto occasione di andare in un multisala ultimamente? Era da parecchio tempo che mancavo a questo appuntamento: un po' perchè ho un odio viscerale per il concetto di multisala in sè (chiamatemi fighetta), un po' perchè vivo come un incubo l'idea di ritrovarmi in una sala gremita di altri esseri umani che all'unisono - quasi fosse OBBLIGATORIO - masticano, sgranocchiano, pasteggiano e PARLANO (con annessi commenti pseudo-intellettuali) facendoti perdere almeno 3/4 del senso del film.

Partendo da questo presupposto, la mia voglia di recarmi in un multisala si azzera quasi completamente. L'altro ieri sera abbiamo avuto la brillante idea di andare a vedere La Bella e la Bestia 3D in una nota catena di multisala perché nella mia ridente cittadina (Monza), questo titolo non era disponibile alla corte dei miei cinema prediletti. E visto che quando ero bambina mi son persa la visione di questo classico al cinema - pur essendo, poi, diventato il mio preferito in assoluto - sono dovuta scendere a compromessi, mettere da parte il mio rifiuto categorico e mandare giù il boccone amaro. Arriviamo in cassa, diamo il numero degli spettatori (7), ci chiedono insolitamente se provvisti o meno degli occhialini 3D (4 di noi sì, 3 no), e poi ci comunicano il conto: 80 euro. Essendo sprovvista di occhialini, per il prezzo del mio biglietto ho corrisposto la bellezza di 12 euro, 11  coloro i quali erano già muniti (furbamente) di occhiali. 

Adesso.
Capisco che la cultura non ha prezzo, ma andare a vedere un fottuto film d'animazione (di 20 anni fa, tra l'altro) e spendere dodici euro mi sembra un tantino eccessivo, soprattutto in vista del fatto che prima di potermi godere in pace il film, sono costretta a sorbirmi 20 (e dico, VENTI) minuti di pubblicità. Nella lunga attesa prima che il film iniziasse, ho valutato cosa avrei potuto fare con quei 12 euro:

- andare (quasi) a mangiare una pizza con gli amici, in una pizzeria tranquilla
- bere due medie o almeno 6 shot rhum/pera
- affittare un dvd/blu-ray e godermelo nella comodità del mio divano con tanto di impianto home-theatre, con qualche kg di patatine, pop corn e qualche litro di coca-cola
- comprarmi il dvd/blu-ray di La Bella e la Bestia, nella modalità come sopra e immaginandomi il 3D (il potere dell'immaginazione non ha limiti!)
- comprarmi un paio di edizioni economiche di qualche libro

Nella foto, La bella e la bestia
Alla luce della mia riflessione ben poco lucida, emerge una sola verità: il cinema sta diventando un bene di lusso, inaccessibile a molti. Non vi tedierò con qualche citazione alla "ai miei tempi entrare al cinema e vedere un cazzo di film Disney costava massimo 8/10 mila lire!", ma gradirei un vostro parere: siete ancora disposti e stimolati a pagare così tanto per andare a vedere un film in un multisala, in una situazione al limite della decenza umana (con vicini che continuano ad ammorbarvi l'esistenza con pasteggi e chiacchiere)?

Io no. Riprendo in mano la mia fichissima tessera del circuito Spazio Cinema, con accesso a 4 euro e 50 SEMPRE, nel mio piccolo cinema di provincia, dove almeno sono sicura di star tranquilla.
E non metterò più piede in un multisala, questo è certo. 

PS (salva-polemica): Il film, comunque, è ancora bellissimo! Ho ancora la pelle d'oca a pensare all'introduzione. Anzi, quasi quasi ve la posto (cliccate su introduzione). 






lunedì 18 giugno 2012

La Paura e i suoi racconti nel cinema horror

Sono il peggior incubo che abbiate avuto, sono il più spaventoso dei vostri incubi diventato realtà, conosco le vostre paure, vi ammazzerò ad uno ad uno.
(Pennywise - IT di Tommy Lee Wallace)

Nella foto, S. Spacey in "Carrie" di B. De Palma
Ho un legame particolare con il cinema horror, forse da psicoanalisi. Mi sono avvicinata al genere in età tenerissima, ma solo perché mio padre è un fervido sostenitore della terapia d'urto: vivi le tue paure, materializzale e poi esorcizzale. Come tutti i bambini, vivevo con terrore il momento della messa a letto: quella stanza grande, buia, la solitudine, e non c'erano peluche o lucine sul comodino che tenevano lontane visite di mostri immaginari. E così scappavo: mi rifugiavo ai piedi del letto dei miei o restavo seduta nel corridoio per terra, con la luce accesa, finché i miei non si accorgevano della mia inquietante presenza.

Nella foto, Tim Curry in "IT" di T. L. Wallace"
Stanco di queste nottatacce con un'ombra silenziosa che rischiava di procurargli un infarto, mio padre ha così pensato di darci un taglio e mettermi di fronte alla PAURA, dimostrandomi che era tutto finto, non ci sarebbero stati mostri che mi avrebbero teso agguati sotto il letto e che era solo il frutto della mia immaginazione. Ed è così che a quattro anni abbiamo visto insieme Carrie, lo sguardo di Satana di Brian De Palma: seduti di fianco sul divano, con mia madre sonnecchiante da una parte, mio padre mi spiegava per filo e per segno cosa stava succedendo, sdrammatizzando con qualche risata e con qualche battuta ("Guarda come si vede bene che è tutto finto! Ma quello è pomodoro o tempera!") l'orrore che si consumava nel film. Da allora non ho avuto più incubi, ci credete? Anzi, guardare gli horror è diventato quasi un appuntamento fisso mio e di mio padre, anche negli anni a venire (tutti i vari Halloween, Nightmare, L'Esorcista, Zombie, l'epoca d'oro di Dario Argento, Saw, ecc.). C'è da dire che la (fortunatissima) terapia d'urto messa in pratica da mio padre non ha avuto gli effetti desiderati anche sua mia sorella minore, anzi: dopo aver visto per la prima (e unica) volta la miniserie IT, ancora oggi mia sorella ha serie difficoltà a incrociare il pupazzo di Ronald McDonald quando va a mangiare nell'omonimo fast-food. E da allora in poi, lei e il cinema horror non viaggiano di pari passo, tutt'altro.

Ma perchè ho deciso di parlarvi del cinema horror? Ci sono due motivi, in realtà: il primo è perché ieri pomeriggio ho origliato casualmente una conversazione tra tre quindicenni alle mie spalle, che parlavano proprio di cinema horror e della diversità di percezione che oggi un adolescente ha di un film, magari datato, rispetto a quando questo è uscito al cinema. Il secondo, invece, è perché si avvicina la bella stagione e l'estate è il momento in cui le tv commerciali, soprattutto negli anni Novanta e Duemila, tira(va)no dal calderone perle di film tv horror alquanto gustose, per riempire i magrissimi palinsesti dei cosiddetti "periodi di non garanzia (pubblicitaria)". Voglio stare al passo con i tempi, avete sotto mano un palinsesto? Vi aggiornerò!

Nella foto L. Blair in "L'esorcista" di W. Friedkin 
Ma andiamo solo con il primo punto. Mi ha interessato molto la chiacchierata dei tre ragazzi perché mi ha messo di fronte ad una presa di coscienza molto importante: di quanto la percezione stessa dell'immagine cinematografica, unita a quella del racconto, ci veda oggi più smaliziati e parecchio scettici. Cito proprio l'esempio riportato da una dei ragazzini, quello di L'Esorcista, che, a sua detta, a guardarlo oggi ti lascia perplesso sulla sua effettiva PAURA E pensare che mamme di miei amici (non la mia, perchè è risaputamente cagasotto, soprattutto riguardo a pellicole con diavoli e possessioni...), allora già più che adolescenti, non hanno chiuso occhio per giorni dopo la visione di questo film, hanno vissuto per mesi con l'angoscia perenne. Erano a disposizione, racconta la storia, ambulanze fuori dai cinema per prevenire infarti ai deboli di cuore. E' ovvio, non siamo ingenui, che buona parte della forza di questo film dipendeva allora dal periodo storico-socio-culturale in cui questo si colloca, dove il tema religioso (soprattutto confrontato ad un tema caldo come le possessioni) era alquanto delicato e di certo non facile per parlare di argomenti così scottanti. L'idea che una ragazzina dal faccino tenero venisse posseduta dal Diavolo in persona, ammettiamolo, avrebbe lasciato di sasso un po' tutti, contando, ripeto, il contesto in cui questo film si colloca. 

Nella foto, Heather Donahue in "The Blair witch Project"
E da qui il passo successivo ad una domanda è quasi automatico: cosa ci fa PAURA oggi, se siamo così open-minded sull'argomento "cinema horror"? Facendo un passo indietro dagli anni '90 in poi, ci hanno inquietato, nell'ordine: telefonate da sconosciuti (Scream),  videocamere amatoriali in mano ad adolescenti che si perdono in un bosco alla ricerca di una fantomatica strega (The Blair Witch Project), serial killer psicopatici che, per farci apprezzare davvero il gusto della nostra vita, ci puniscono con prove inimmaginabili (la saga di Saw), squartamenti di sorta (i vari Hostel), ancora esorcismi o possessioni con riferimenti a fatti (pseudo) reali (L'esorcismo di Emily Rose, ad esempio) e presenze casalinghe tutt'altro che rassicuranti (Paranormal Activity), l'utilizzo del 3D per creare maggiore partecipazione (i vari  San Valentino di Sangue o l'ultimissimo e italiano Paura 3D)...eccetera eccetera.

Siamo stati smaliziati per bene da tanti registi, più o meno bravi, che ci hanno reso impassibili di fronte alla paura raccontata al cinema. 

E adesso? Cosa potrà farci paura per ritornare a vivere la paura al cinema? 


lunedì 28 maggio 2012

"Dark Shadows": quando Tim Burton racconta (un po' male) Tim Burton

Nella foto, T. Burton
Nella mia lunga stirpe familiare di nonni, trisavoli e padri putativi del cinema, non può certamente mancare il mio fratello molto (molto!) maggiore: Tim Burton. Dopo avergli dedicato una tesi di laurea triennale - indagando in due suoi film (Edward mani di forbici e Big Fish) l'evoluzione del concetto di fantastico e realistico - ho iniziato a mutuare nei suoi confronti un rapporto conflittuale. Odi et amo, Passione/Ragione, Delusione/Speranza: binomi sentimentali che hanno lentamente messo in discussione la mia vorace attenzione al suo cinema, ai suoi film, ai suoi temi.

Perchè?

La risposta è molto semplice: è dal 2003 (anno di uscita di Big Fish, con una piccola flessione in positivo nel 2005, anno di La Sposa Cadavere) che Tim Burton non ne imbrocca una! Tralasciando la mia personale amarezza dopo aver visto quello scempio chiamato Alice in Wonderland - su cui le aspettative erano alte, altissime, ma aprirò una parentesi adeguata in un altro contesto - è da quasi 10 anni che il regista di Burbank non sforna una pellicola degna e meritevole della sua firma. E ieri sera, dopo aver a lungo patito e supplicato chi mi accompagnava, ho deciso di concedere al mio amato regista un'altra chance, andando a vedere Dark Shadows

Nella foto, il cast di Dark Shadows
Già, Dark Shadows. Nuovo conflitto interiore, nuova presa di coscienza. E da qui un'analisi, accecata soprattutto dall' "affetto", ma che andava fatta. D'accordo, procediamo con ordine. Passo uno. A Burton piace vincere facile. Schiera in pole position l'artiglieria pesante, quella con i suoi volti più noti: Johnny Depp, Sir Christopher Lee, Helena Bonham Carter, Michelle Pfeiffer. Un punto a favore. Passo due. Una fotografia ineccepibile, con un ritorno alla perfetta dicotomia tra colori kitsch e colori dark. Gioia e tripudio. Secondo punto a favore. Passo tre. Una colonna sonora degna di un qualsiasi (buon) film di Tim Burton: parlo, ovviamente, di quella non originale - questa volta con un'incursione piacevole agli anni '70, lasciando per una volta in un angolo Tom Jones e i '60s - perchè oramai il buon Danny Elfman ha canonizzato e cristallizzato il suo stile, creando un terribile effetto deja-vù. Ci ha un po' rotto le palle, detto più casereccio. Si retrocede di una posizione. Passo quattro. La sostanza, la "ciccia". La storia, insomma. Ok, respiro profondo e via di getto. Ehhhh, la storia, la storia. Si apre una parentesi pruriginosa, fastidiosa, quella di un'analisi di un modus operandi in voga tra alcuni registi contemporanei. Già! Quando si è a corto di idee brillanti e di una sceneggiatura forte - per quanto, in questo film, siano stati scomodati per l'occasione John August, sceneggiatore di Big Fish (!), e lo scrittore Seth Grahame-Smith - l'unica soluzione è citare (qui un esempio è La morte ti fa bella, ma la lista è lunga) e, ancor peggio, auto-citarsi

Ma parliamo in particolare di quest'ultima opzione, una moda portata avanti, come dicevo, anche da altri autori, come Quentin Tarantino - pensiamo a Death Proof e rabbrividiamo, giusto un po'. Anche Tim Burton, e questo lo dico con il cuore un po' infranto, è caduto in questa trappola inesorabile, rendendo Dark Shadows (già di suo reimpastamento di una soap opera degli anni Sessanta) una personale di vecchie glorie e successi del passato. Potrei citarvi giusto qualche film, in ordine sparso: Edward mani di forbici (il castello, la folla indemoniata che si accalca, il personaggio di Angelique Bouchard, molto simile alla ninfomane Joyce Monroe, e il personaggio di Victoria Winters, che un po' riecheggia quello di Kim e che guarda caso si chiama Victoria - nome di un personaggio di La Sposa Cadavere - le scene dei pasteggi familiari), Alice in Wonderland (ma Helena Bonham Carter va ancora in giro con il trucco della Regina Rossa?), Beetle Juice - Spiritello Porcello (Barnabas è una versione edulcorata e british di Betelgeuse, il personaggio invasato di Carolyne è una versione reimpastata in chiave '70s di Lydia Deetz...però, lo ammetto, speravo che Dark Shadows recuperasse buona parte del suo essere così goduriosamente kitsch!), Sweeney Todd (l'inizio del film è spaventosamente IDENTICO), ecc.

Vivere sulla gloria del passato, raccontare il passato, scopiazzare dal proprio stesso passato. Scelta peggiore, visto che lo scopo non è quello di solleticare l'appassionato del tuo cinema, quanto piuttosto colmare (quando si riesce) evidenti buchi narrativi che altrimenti non troverebbero via d'uscita. E qui l'annullamento dei voti positivi precedenti.

Per quanto Dark Shadows non sia un film così inguardabile - ha dei suoi momenti comici e sottili molto gustosi - il dilemma rimane: Tim Burton è un genio, attualmente in standby, o ci ha preso un po' tutti per il culo? Preferisco non sbilanciarmi, impacchetto e torno a casa.
...e aspettare speranzosa come Penelope, tessendo e disfacendo la tela.
Come da 10 anni a questa parte.

lunedì 14 maggio 2012

Quando una locandina racconta la storia del Festival del Cinema per eccellenza...

Locandina di Cannes 65 con omaggio a Marilyn Monroe

65 edizioni e non dimostrarle. Meno due giorni all'inizio del Festival per eccellenza, sulla croisette. 
Can't wait anymore!

"Hunger Games": Quando un film SCOPIAZZA altre storie...

Nella foto, Hunger Games di G. Ross (2012)
Odio fare la saccente. E odio ancora di più guardare film che mi trasformano in una maledetta maestrina con la penna rossa. Chiamatela, se volete, deformazione professionale o spocchia, molto spesso le due cose si equivalgono. Bene, non avendo alcuna intenzione di spendere una lira (...o euro, checchesidica) per vederlo al cinema, ho deciso di guardare in modo alternativo l'attesissimo Hunger Games di Gary Ross che questa volta non è Hunger di Steve McQueen, con Michael Fassbender.

Tralasciando la noia mortale che attraversa le quasi due ore abbondanti di pellicola - ma questo, si sa, sta diventando un vezzo stilistico di molti registi: quando non si sa più cosa raccontare, si allunga il brodo...un po' come si faceva alle elementari - quello che mi ha lasciato estremamente perplessa è l'incredibile mancanza di originalità nella trama. Un film - così acclamato e osannato negli States - che si rivela la scopiazzata di un passato lontano e vicino, narrativamente parlando. Posso citarvi almeno due racconti, completamente differenti tra loro, da cui la scrittrice Suzanne Collins ha attinto senza ritegno (magari in buona fede...o semplicemente perchè a corto di idee?):


  • i 7 fanciulli e le 7 fanciulle inviati da Atene e mandati in sacrificio al Minotauro, figlio del re di Creta Minosse, come tributo di sottomissione per aver perso la guerra (prendete un qualsiasi dizionario di mitologia e ne troverete riscontro)
  • il manga giapponese, a firma di Koushun Takami e del mangaka Masayuki Taguchi, Battle Royale (prima edizione: anno 2000): 21 ragazzi e 21 ragazze di terza media, scelti a sorteggio, vengono mandati ogni anno su un'isola per partecipare al cosiddetto Programma, una sfida all'ultimo sangue dove solo uccidendosi l'uno con l'altro, con le armi e i mezzi meno ortodossi, verrà proclamato un vincitore.

Nella foto, un'immagine tratta dal manga Battle Royale (2000)
Ecco, diciamo che la Collins non riesce a farla franca con chi ha un minimo di esperienza con la mitologia greca ed una passione sfegatata per i manga giapponesi. C'è chi parla anche di un retrogusto fantascientifico alla Rollerball, che effettivamente è impossibile non citare, eccetera eccetera. E poi questa condanna al reality show estremo, che fa molto anni Duemila e che oramai non attacca più. Condannare il voyeurismo (anche estremo) da reality, in cui il cinema passa per il medium critico nei confronti della tv dannata e cattiva (anche qui, cos'ha di così diverso dalla vita vissuta da Truman Burbank in The Truman Show? La violenza fisica? Capirai, quest'uomo ha vissuto la sua intera esistenza in modo fittizio, con rapporti di plastica e relazioni basate su uno storyboard...più violenza meschina di questa!), ripeto, sa di vecchio e stantio. Se Hunger Games fosse arrivato con 12 anni di anticipo, avremmo sicuramente gridato al miracolo. Qui, al massimo, ti viene l'ulcera.

Fase decadente del cinema hollywoodiano? Non voglio essere così estrema, perchè effettivamente ci sono tanti bei prodotti originali che ci lasciano tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, è innegabile che questa corsa al remake e al saccheggio selvaggio di best-seller (molto poco best, a mio avviso) stia annebbiando la mente di molti sceneggiatori, che si crogiolano nel riadattare senza troppi interventi personali racconti già scritti da altri. Lo reimpastano, lo rimescolano (senza particolari interventi, va detto), ci piazzano due effetti speciali o un bel volto e il gioco è fatto.

Diciamo che dalla macchina dei sogni mi aspetto un tantinello in più.



mercoledì 9 maggio 2012

Quando un film racconta La Storia...

Le voyage dans la Lune (bozzetto) di G. Méliès (1902)
Ho anche un tris-tris nonno magico, lo sapevate? E' stato illusionista, prestigiatore, ma soprattutto regista. Il regista, per la precisione. E' stato il papà del cosiddetto Cinema di finzione, mi ha condotto per mano in un mondo che ho conosciuto in stato decisamente avanzato, mentre lui - poco più che trentenne - ne aveva visto gli albori e ha contribuito a farne La Storia. 

Si chiamava George Méliès. Per anni ho pronunciato il suo cognome Meliè, nel mio totale rifiuto verso la lingua francese e convinta che ogni parola di questo idioma, che finisca per la lettera "esse", si tramuti in una parola tronca. Poi ho scoperto che si pronuncia come si legge, ma so che a riguardo c'è una leggera diatriba. Lascio accapigliarsi qualcun altro per me, tanto con o senza esse il senso della sua arte non cambia. 

Ben Kingsley/George Méliès in Hugo Cabret di M. Scorsese (2012)
Qualche mese fa ho visto al cinema un film che raccontava e omaggiava proprio lui, Papà George, dal titolo Hugo Cabret di Martin Scorsese. Un regista, quest'ultimo, davvero poco conosciuto (ironia, ironia, ironia!) e un film di cui si è parlato veramente poco, essendo il primo approccio di Martin al 3D (ironia, ironia, ironia! al quadrato). Ma lasciamo bearsi alla loro analisi i critici, che ancora una volta si sono massacrati a colpi di inchiostro in un turn-over di insulti "Voi non capite niente!", "Scorsese venduto al 3D!", eccetera eccetera eccetera. E che dire, allora? Un film abbastanza scorrevole...certo, se superi la prima ora di pellicola dietro a un moccioso la cui storia fa un baffo persino a quegli sfigati di Oliver Twist e Dolce Remì messi insieme. Ma in realtà la storia di Hugo, si sa, è solo un pretesto per raccontare la storia di un grande. Il Maestro di tutti i grandi registi, e anche un po' di tutti quelli che hanno avuto l'occasione di studiare storia del cinema. Un po' come me, tanti anni fa. E un po' come lo stesso Scorsese, che timidamente compare in un cameo nel film per immortalarsi nella storia di un grande, fotografando Papà George fuori dai suoi studi a Montreuil. Svelando quella che è un po' la magia del cinema: la possibilità di rivivere e prendere parte ad un evento importante, come quella della consacrazione di un Maestro, grazie al potere della macchina da presa, un po' di trucco, la ricostruzione di un set, eccetera. La seconda parte del film è quella che oggettivamente mi ha emozionato. 

Mi ha emozionato perchè mi sono rivista studentella di 18 anni, infognata all'ultimo banco di un'affollata aula universitaria, mentre il mio mentore ci raccontava l'inventiva di questo uomo. E poi le ore passate a studiare sui libri, guardando online quei pochi frammenti della sua filmografia che ci sono rimasti. Scervellarsi per capire quale mente geniale si celasse dietro quest'uomo, che ha reso quell' aggeggio rumoroso un mezzo incredibile per raccontare e affascinare. Per dare spazio all'immaginazione. 

...Scorsese, un po' come tutti quelli che hanno un debito nei confronti di Méliès, ha cercato di restituirne la grandezza. 
Io stessa, in questa manciata di frasi, ho voluto restituire il favore.
Quel favore fatto di meraviglia, di leggerezza, di magia.
Che un po' mi manca, devo essere onesta.