lunedì 23 luglio 2012

giovedì 21 giugno 2012

Una polemica: Caro 3D, quanto me costi!

Una sala da multisala
Avete avuto occasione di andare in un multisala ultimamente? Era da parecchio tempo che mancavo a questo appuntamento: un po' perchè ho un odio viscerale per il concetto di multisala in sè (chiamatemi fighetta), un po' perchè vivo come un incubo l'idea di ritrovarmi in una sala gremita di altri esseri umani che all'unisono - quasi fosse OBBLIGATORIO - masticano, sgranocchiano, pasteggiano e PARLANO (con annessi commenti pseudo-intellettuali) facendoti perdere almeno 3/4 del senso del film.

Partendo da questo presupposto, la mia voglia di recarmi in un multisala si azzera quasi completamente. L'altro ieri sera abbiamo avuto la brillante idea di andare a vedere La Bella e la Bestia 3D in una nota catena di multisala perché nella mia ridente cittadina (Monza), questo titolo non era disponibile alla corte dei miei cinema prediletti. E visto che quando ero bambina mi son persa la visione di questo classico al cinema - pur essendo, poi, diventato il mio preferito in assoluto - sono dovuta scendere a compromessi, mettere da parte il mio rifiuto categorico e mandare giù il boccone amaro. Arriviamo in cassa, diamo il numero degli spettatori (7), ci chiedono insolitamente se provvisti o meno degli occhialini 3D (4 di noi sì, 3 no), e poi ci comunicano il conto: 80 euro. Essendo sprovvista di occhialini, per il prezzo del mio biglietto ho corrisposto la bellezza di 12 euro, 11  coloro i quali erano già muniti (furbamente) di occhiali. 

Adesso.
Capisco che la cultura non ha prezzo, ma andare a vedere un fottuto film d'animazione (di 20 anni fa, tra l'altro) e spendere dodici euro mi sembra un tantino eccessivo, soprattutto in vista del fatto che prima di potermi godere in pace il film, sono costretta a sorbirmi 20 (e dico, VENTI) minuti di pubblicità. Nella lunga attesa prima che il film iniziasse, ho valutato cosa avrei potuto fare con quei 12 euro:

- andare (quasi) a mangiare una pizza con gli amici, in una pizzeria tranquilla
- bere due medie o almeno 6 shot rhum/pera
- affittare un dvd/blu-ray e godermelo nella comodità del mio divano con tanto di impianto home-theatre, con qualche kg di patatine, pop corn e qualche litro di coca-cola
- comprarmi il dvd/blu-ray di La Bella e la Bestia, nella modalità come sopra e immaginandomi il 3D (il potere dell'immaginazione non ha limiti!)
- comprarmi un paio di edizioni economiche di qualche libro

Nella foto, La bella e la bestia
Alla luce della mia riflessione ben poco lucida, emerge una sola verità: il cinema sta diventando un bene di lusso, inaccessibile a molti. Non vi tedierò con qualche citazione alla "ai miei tempi entrare al cinema e vedere un cazzo di film Disney costava massimo 8/10 mila lire!", ma gradirei un vostro parere: siete ancora disposti e stimolati a pagare così tanto per andare a vedere un film in un multisala, in una situazione al limite della decenza umana (con vicini che continuano ad ammorbarvi l'esistenza con pasteggi e chiacchiere)?

Io no. Riprendo in mano la mia fichissima tessera del circuito Spazio Cinema, con accesso a 4 euro e 50 SEMPRE, nel mio piccolo cinema di provincia, dove almeno sono sicura di star tranquilla.
E non metterò più piede in un multisala, questo è certo. 

PS (salva-polemica): Il film, comunque, è ancora bellissimo! Ho ancora la pelle d'oca a pensare all'introduzione. Anzi, quasi quasi ve la posto (cliccate su introduzione). 






lunedì 18 giugno 2012

La Paura e i suoi racconti nel cinema horror

Sono il peggior incubo che abbiate avuto, sono il più spaventoso dei vostri incubi diventato realtà, conosco le vostre paure, vi ammazzerò ad uno ad uno.
(Pennywise - IT di Tommy Lee Wallace)

Nella foto, S. Spacey in "Carrie" di B. De Palma
Ho un legame particolare con il cinema horror, forse da psicoanalisi. Mi sono avvicinata al genere in età tenerissima, ma solo perché mio padre è un fervido sostenitore della terapia d'urto: vivi le tue paure, materializzale e poi esorcizzale. Come tutti i bambini, vivevo con terrore il momento della messa a letto: quella stanza grande, buia, la solitudine, e non c'erano peluche o lucine sul comodino che tenevano lontane visite di mostri immaginari. E così scappavo: mi rifugiavo ai piedi del letto dei miei o restavo seduta nel corridoio per terra, con la luce accesa, finché i miei non si accorgevano della mia inquietante presenza.

Nella foto, Tim Curry in "IT" di T. L. Wallace"
Stanco di queste nottatacce con un'ombra silenziosa che rischiava di procurargli un infarto, mio padre ha così pensato di darci un taglio e mettermi di fronte alla PAURA, dimostrandomi che era tutto finto, non ci sarebbero stati mostri che mi avrebbero teso agguati sotto il letto e che era solo il frutto della mia immaginazione. Ed è così che a quattro anni abbiamo visto insieme Carrie, lo sguardo di Satana di Brian De Palma: seduti di fianco sul divano, con mia madre sonnecchiante da una parte, mio padre mi spiegava per filo e per segno cosa stava succedendo, sdrammatizzando con qualche risata e con qualche battuta ("Guarda come si vede bene che è tutto finto! Ma quello è pomodoro o tempera!") l'orrore che si consumava nel film. Da allora non ho avuto più incubi, ci credete? Anzi, guardare gli horror è diventato quasi un appuntamento fisso mio e di mio padre, anche negli anni a venire (tutti i vari Halloween, Nightmare, L'Esorcista, Zombie, l'epoca d'oro di Dario Argento, Saw, ecc.). C'è da dire che la (fortunatissima) terapia d'urto messa in pratica da mio padre non ha avuto gli effetti desiderati anche sua mia sorella minore, anzi: dopo aver visto per la prima (e unica) volta la miniserie IT, ancora oggi mia sorella ha serie difficoltà a incrociare il pupazzo di Ronald McDonald quando va a mangiare nell'omonimo fast-food. E da allora in poi, lei e il cinema horror non viaggiano di pari passo, tutt'altro.

Ma perchè ho deciso di parlarvi del cinema horror? Ci sono due motivi, in realtà: il primo è perché ieri pomeriggio ho origliato casualmente una conversazione tra tre quindicenni alle mie spalle, che parlavano proprio di cinema horror e della diversità di percezione che oggi un adolescente ha di un film, magari datato, rispetto a quando questo è uscito al cinema. Il secondo, invece, è perché si avvicina la bella stagione e l'estate è il momento in cui le tv commerciali, soprattutto negli anni Novanta e Duemila, tira(va)no dal calderone perle di film tv horror alquanto gustose, per riempire i magrissimi palinsesti dei cosiddetti "periodi di non garanzia (pubblicitaria)". Voglio stare al passo con i tempi, avete sotto mano un palinsesto? Vi aggiornerò!

Nella foto L. Blair in "L'esorcista" di W. Friedkin 
Ma andiamo solo con il primo punto. Mi ha interessato molto la chiacchierata dei tre ragazzi perché mi ha messo di fronte ad una presa di coscienza molto importante: di quanto la percezione stessa dell'immagine cinematografica, unita a quella del racconto, ci veda oggi più smaliziati e parecchio scettici. Cito proprio l'esempio riportato da una dei ragazzini, quello di L'Esorcista, che, a sua detta, a guardarlo oggi ti lascia perplesso sulla sua effettiva PAURA E pensare che mamme di miei amici (non la mia, perchè è risaputamente cagasotto, soprattutto riguardo a pellicole con diavoli e possessioni...), allora già più che adolescenti, non hanno chiuso occhio per giorni dopo la visione di questo film, hanno vissuto per mesi con l'angoscia perenne. Erano a disposizione, racconta la storia, ambulanze fuori dai cinema per prevenire infarti ai deboli di cuore. E' ovvio, non siamo ingenui, che buona parte della forza di questo film dipendeva allora dal periodo storico-socio-culturale in cui questo si colloca, dove il tema religioso (soprattutto confrontato ad un tema caldo come le possessioni) era alquanto delicato e di certo non facile per parlare di argomenti così scottanti. L'idea che una ragazzina dal faccino tenero venisse posseduta dal Diavolo in persona, ammettiamolo, avrebbe lasciato di sasso un po' tutti, contando, ripeto, il contesto in cui questo film si colloca. 

Nella foto, Heather Donahue in "The Blair witch Project"
E da qui il passo successivo ad una domanda è quasi automatico: cosa ci fa PAURA oggi, se siamo così open-minded sull'argomento "cinema horror"? Facendo un passo indietro dagli anni '90 in poi, ci hanno inquietato, nell'ordine: telefonate da sconosciuti (Scream),  videocamere amatoriali in mano ad adolescenti che si perdono in un bosco alla ricerca di una fantomatica strega (The Blair Witch Project), serial killer psicopatici che, per farci apprezzare davvero il gusto della nostra vita, ci puniscono con prove inimmaginabili (la saga di Saw), squartamenti di sorta (i vari Hostel), ancora esorcismi o possessioni con riferimenti a fatti (pseudo) reali (L'esorcismo di Emily Rose, ad esempio) e presenze casalinghe tutt'altro che rassicuranti (Paranormal Activity), l'utilizzo del 3D per creare maggiore partecipazione (i vari  San Valentino di Sangue o l'ultimissimo e italiano Paura 3D)...eccetera eccetera.

Siamo stati smaliziati per bene da tanti registi, più o meno bravi, che ci hanno reso impassibili di fronte alla paura raccontata al cinema. 

E adesso? Cosa potrà farci paura per ritornare a vivere la paura al cinema? 


lunedì 28 maggio 2012

"Dark Shadows": quando Tim Burton racconta (un po' male) Tim Burton

Nella foto, T. Burton
Nella mia lunga stirpe familiare di nonni, trisavoli e padri putativi del cinema, non può certamente mancare il mio fratello molto (molto!) maggiore: Tim Burton. Dopo avergli dedicato una tesi di laurea triennale - indagando in due suoi film (Edward mani di forbici e Big Fish) l'evoluzione del concetto di fantastico e realistico - ho iniziato a mutuare nei suoi confronti un rapporto conflittuale. Odi et amo, Passione/Ragione, Delusione/Speranza: binomi sentimentali che hanno lentamente messo in discussione la mia vorace attenzione al suo cinema, ai suoi film, ai suoi temi.

Perchè?

La risposta è molto semplice: è dal 2003 (anno di uscita di Big Fish, con una piccola flessione in positivo nel 2005, anno di La Sposa Cadavere) che Tim Burton non ne imbrocca una! Tralasciando la mia personale amarezza dopo aver visto quello scempio chiamato Alice in Wonderland - su cui le aspettative erano alte, altissime, ma aprirò una parentesi adeguata in un altro contesto - è da quasi 10 anni che il regista di Burbank non sforna una pellicola degna e meritevole della sua firma. E ieri sera, dopo aver a lungo patito e supplicato chi mi accompagnava, ho deciso di concedere al mio amato regista un'altra chance, andando a vedere Dark Shadows

Nella foto, il cast di Dark Shadows
Già, Dark Shadows. Nuovo conflitto interiore, nuova presa di coscienza. E da qui un'analisi, accecata soprattutto dall' "affetto", ma che andava fatta. D'accordo, procediamo con ordine. Passo uno. A Burton piace vincere facile. Schiera in pole position l'artiglieria pesante, quella con i suoi volti più noti: Johnny Depp, Sir Christopher Lee, Helena Bonham Carter, Michelle Pfeiffer. Un punto a favore. Passo due. Una fotografia ineccepibile, con un ritorno alla perfetta dicotomia tra colori kitsch e colori dark. Gioia e tripudio. Secondo punto a favore. Passo tre. Una colonna sonora degna di un qualsiasi (buon) film di Tim Burton: parlo, ovviamente, di quella non originale - questa volta con un'incursione piacevole agli anni '70, lasciando per una volta in un angolo Tom Jones e i '60s - perchè oramai il buon Danny Elfman ha canonizzato e cristallizzato il suo stile, creando un terribile effetto deja-vù. Ci ha un po' rotto le palle, detto più casereccio. Si retrocede di una posizione. Passo quattro. La sostanza, la "ciccia". La storia, insomma. Ok, respiro profondo e via di getto. Ehhhh, la storia, la storia. Si apre una parentesi pruriginosa, fastidiosa, quella di un'analisi di un modus operandi in voga tra alcuni registi contemporanei. Già! Quando si è a corto di idee brillanti e di una sceneggiatura forte - per quanto, in questo film, siano stati scomodati per l'occasione John August, sceneggiatore di Big Fish (!), e lo scrittore Seth Grahame-Smith - l'unica soluzione è citare (qui un esempio è La morte ti fa bella, ma la lista è lunga) e, ancor peggio, auto-citarsi

Ma parliamo in particolare di quest'ultima opzione, una moda portata avanti, come dicevo, anche da altri autori, come Quentin Tarantino - pensiamo a Death Proof e rabbrividiamo, giusto un po'. Anche Tim Burton, e questo lo dico con il cuore un po' infranto, è caduto in questa trappola inesorabile, rendendo Dark Shadows (già di suo reimpastamento di una soap opera degli anni Sessanta) una personale di vecchie glorie e successi del passato. Potrei citarvi giusto qualche film, in ordine sparso: Edward mani di forbici (il castello, la folla indemoniata che si accalca, il personaggio di Angelique Bouchard, molto simile alla ninfomane Joyce Monroe, e il personaggio di Victoria Winters, che un po' riecheggia quello di Kim e che guarda caso si chiama Victoria - nome di un personaggio di La Sposa Cadavere - le scene dei pasteggi familiari), Alice in Wonderland (ma Helena Bonham Carter va ancora in giro con il trucco della Regina Rossa?), Beetle Juice - Spiritello Porcello (Barnabas è una versione edulcorata e british di Betelgeuse, il personaggio invasato di Carolyne è una versione reimpastata in chiave '70s di Lydia Deetz...però, lo ammetto, speravo che Dark Shadows recuperasse buona parte del suo essere così goduriosamente kitsch!), Sweeney Todd (l'inizio del film è spaventosamente IDENTICO), ecc.

Vivere sulla gloria del passato, raccontare il passato, scopiazzare dal proprio stesso passato. Scelta peggiore, visto che lo scopo non è quello di solleticare l'appassionato del tuo cinema, quanto piuttosto colmare (quando si riesce) evidenti buchi narrativi che altrimenti non troverebbero via d'uscita. E qui l'annullamento dei voti positivi precedenti.

Per quanto Dark Shadows non sia un film così inguardabile - ha dei suoi momenti comici e sottili molto gustosi - il dilemma rimane: Tim Burton è un genio, attualmente in standby, o ci ha preso un po' tutti per il culo? Preferisco non sbilanciarmi, impacchetto e torno a casa.
...e aspettare speranzosa come Penelope, tessendo e disfacendo la tela.
Come da 10 anni a questa parte.

lunedì 14 maggio 2012

Quando una locandina racconta la storia del Festival del Cinema per eccellenza...

Locandina di Cannes 65 con omaggio a Marilyn Monroe

65 edizioni e non dimostrarle. Meno due giorni all'inizio del Festival per eccellenza, sulla croisette. 
Can't wait anymore!

"Hunger Games": Quando un film SCOPIAZZA altre storie...

Nella foto, Hunger Games di G. Ross (2012)
Odio fare la saccente. E odio ancora di più guardare film che mi trasformano in una maledetta maestrina con la penna rossa. Chiamatela, se volete, deformazione professionale o spocchia, molto spesso le due cose si equivalgono. Bene, non avendo alcuna intenzione di spendere una lira (...o euro, checchesidica) per vederlo al cinema, ho deciso di guardare in modo alternativo l'attesissimo Hunger Games di Gary Ross che questa volta non è Hunger di Steve McQueen, con Michael Fassbender.

Tralasciando la noia mortale che attraversa le quasi due ore abbondanti di pellicola - ma questo, si sa, sta diventando un vezzo stilistico di molti registi: quando non si sa più cosa raccontare, si allunga il brodo...un po' come si faceva alle elementari - quello che mi ha lasciato estremamente perplessa è l'incredibile mancanza di originalità nella trama. Un film - così acclamato e osannato negli States - che si rivela la scopiazzata di un passato lontano e vicino, narrativamente parlando. Posso citarvi almeno due racconti, completamente differenti tra loro, da cui la scrittrice Suzanne Collins ha attinto senza ritegno (magari in buona fede...o semplicemente perchè a corto di idee?):


  • i 7 fanciulli e le 7 fanciulle inviati da Atene e mandati in sacrificio al Minotauro, figlio del re di Creta Minosse, come tributo di sottomissione per aver perso la guerra (prendete un qualsiasi dizionario di mitologia e ne troverete riscontro)
  • il manga giapponese, a firma di Koushun Takami e del mangaka Masayuki Taguchi, Battle Royale (prima edizione: anno 2000): 21 ragazzi e 21 ragazze di terza media, scelti a sorteggio, vengono mandati ogni anno su un'isola per partecipare al cosiddetto Programma, una sfida all'ultimo sangue dove solo uccidendosi l'uno con l'altro, con le armi e i mezzi meno ortodossi, verrà proclamato un vincitore.

Nella foto, un'immagine tratta dal manga Battle Royale (2000)
Ecco, diciamo che la Collins non riesce a farla franca con chi ha un minimo di esperienza con la mitologia greca ed una passione sfegatata per i manga giapponesi. C'è chi parla anche di un retrogusto fantascientifico alla Rollerball, che effettivamente è impossibile non citare, eccetera eccetera. E poi questa condanna al reality show estremo, che fa molto anni Duemila e che oramai non attacca più. Condannare il voyeurismo (anche estremo) da reality, in cui il cinema passa per il medium critico nei confronti della tv dannata e cattiva (anche qui, cos'ha di così diverso dalla vita vissuta da Truman Burbank in The Truman Show? La violenza fisica? Capirai, quest'uomo ha vissuto la sua intera esistenza in modo fittizio, con rapporti di plastica e relazioni basate su uno storyboard...più violenza meschina di questa!), ripeto, sa di vecchio e stantio. Se Hunger Games fosse arrivato con 12 anni di anticipo, avremmo sicuramente gridato al miracolo. Qui, al massimo, ti viene l'ulcera.

Fase decadente del cinema hollywoodiano? Non voglio essere così estrema, perchè effettivamente ci sono tanti bei prodotti originali che ci lasciano tirare un sospiro di sollievo. Tuttavia, è innegabile che questa corsa al remake e al saccheggio selvaggio di best-seller (molto poco best, a mio avviso) stia annebbiando la mente di molti sceneggiatori, che si crogiolano nel riadattare senza troppi interventi personali racconti già scritti da altri. Lo reimpastano, lo rimescolano (senza particolari interventi, va detto), ci piazzano due effetti speciali o un bel volto e il gioco è fatto.

Diciamo che dalla macchina dei sogni mi aspetto un tantinello in più.



mercoledì 9 maggio 2012

Quando un film racconta La Storia...

Le voyage dans la Lune (bozzetto) di G. Méliès (1902)
Ho anche un tris-tris nonno magico, lo sapevate? E' stato illusionista, prestigiatore, ma soprattutto regista. Il regista, per la precisione. E' stato il papà del cosiddetto Cinema di finzione, mi ha condotto per mano in un mondo che ho conosciuto in stato decisamente avanzato, mentre lui - poco più che trentenne - ne aveva visto gli albori e ha contribuito a farne La Storia. 

Si chiamava George Méliès. Per anni ho pronunciato il suo cognome Meliè, nel mio totale rifiuto verso la lingua francese e convinta che ogni parola di questo idioma, che finisca per la lettera "esse", si tramuti in una parola tronca. Poi ho scoperto che si pronuncia come si legge, ma so che a riguardo c'è una leggera diatriba. Lascio accapigliarsi qualcun altro per me, tanto con o senza esse il senso della sua arte non cambia. 

Ben Kingsley/George Méliès in Hugo Cabret di M. Scorsese (2012)
Qualche mese fa ho visto al cinema un film che raccontava e omaggiava proprio lui, Papà George, dal titolo Hugo Cabret di Martin Scorsese. Un regista, quest'ultimo, davvero poco conosciuto (ironia, ironia, ironia!) e un film di cui si è parlato veramente poco, essendo il primo approccio di Martin al 3D (ironia, ironia, ironia! al quadrato). Ma lasciamo bearsi alla loro analisi i critici, che ancora una volta si sono massacrati a colpi di inchiostro in un turn-over di insulti "Voi non capite niente!", "Scorsese venduto al 3D!", eccetera eccetera eccetera. E che dire, allora? Un film abbastanza scorrevole...certo, se superi la prima ora di pellicola dietro a un moccioso la cui storia fa un baffo persino a quegli sfigati di Oliver Twist e Dolce Remì messi insieme. Ma in realtà la storia di Hugo, si sa, è solo un pretesto per raccontare la storia di un grande. Il Maestro di tutti i grandi registi, e anche un po' di tutti quelli che hanno avuto l'occasione di studiare storia del cinema. Un po' come me, tanti anni fa. E un po' come lo stesso Scorsese, che timidamente compare in un cameo nel film per immortalarsi nella storia di un grande, fotografando Papà George fuori dai suoi studi a Montreuil. Svelando quella che è un po' la magia del cinema: la possibilità di rivivere e prendere parte ad un evento importante, come quella della consacrazione di un Maestro, grazie al potere della macchina da presa, un po' di trucco, la ricostruzione di un set, eccetera. La seconda parte del film è quella che oggettivamente mi ha emozionato. 

Mi ha emozionato perchè mi sono rivista studentella di 18 anni, infognata all'ultimo banco di un'affollata aula universitaria, mentre il mio mentore ci raccontava l'inventiva di questo uomo. E poi le ore passate a studiare sui libri, guardando online quei pochi frammenti della sua filmografia che ci sono rimasti. Scervellarsi per capire quale mente geniale si celasse dietro quest'uomo, che ha reso quell' aggeggio rumoroso un mezzo incredibile per raccontare e affascinare. Per dare spazio all'immaginazione. 

...Scorsese, un po' come tutti quelli che hanno un debito nei confronti di Méliès, ha cercato di restituirne la grandezza. 
Io stessa, in questa manciata di frasi, ho voluto restituire il favore.
Quel favore fatto di meraviglia, di leggerezza, di magia.
Che un po' mi manca, devo essere onesta.

lunedì 30 aprile 2012

"Hunger"..of Cinema - Non è la solita storia di critici che si auto-compiacciono.

*Una scena tratta da Hunger di S. McQueen (2008)
Perchè non è tutta colpa del pubblico, dei registi e dei critici più terra terra.

Bisogna partire dalle caste.

E sradicarle.



Amo imparare. E amo, soprattutto, imparare a confrontarmi. Sto seguendo con interesse il dibattito sollevato da quel buon "vecchio" dizionario di cinema, noto anche come Paolo Mereghetti, che con un suo intervento sul Corriere di ieri intitolato Nuovo Cinema Populista ha mosso un paio di coscienze. E Mereghetti non la manda a raccontare, siamo sinceri: la sua è una riflessione molto dura sul ruolo socio-culturale svolto dai critici cinematografici italiani, intellettuali che hanno perso un po' la bussola inseguendo logiche prettamente commerciali e che, senza mezzi termini, si sono un po' rammolliti. Un tempo c'era chi si incazzava nei confronti di certi abbruttimenti culturali, alzava la voce, buttava giù frasi al vetriolo nei confronti di tal regista e di tal film, ovviamente a ragion veduta. Eccetera, eccetera. Ad appoggiare con un'ottima argomentazione il buon Mereghetti, c'è il (ben) più giovane critico Federico Gironi sul suo blog di Coming Soon, che conferma una tendenza alquanto bonaria della critica italiana contemporanea rispetto ad un determinato cinema (ma vi invito a leggere entrambi gli articoli per maggiore chiarezza personale, non vorrei non render merito alle loro riflessioni). 

Ed eccomi qui, oggi, a pormi un paio di domande, tentare di dare una qualche risposta e solleticare un po' il mio cervello in merito a questa questione. Che, vuoi anche un po' per coincidenza astrale, altro non è che un prolungamento della mia riflessione lasciata in sospeso ieri sera, dopo aver visto Hunger di Steve McQueen (Hunger, non Hunger Games...). Un film, come immagino saprete, che è arrivato in Italia con circa quattro anni di ritardo. Un po' troppi, aggiungo. Anni di riflessione? All'epoca Michael Fassbender non era un cazzo di nessuno (botteghinamente parlando) e, per quanto fosse già allora un gran bel pezzo di manzo (scusate la bassezza degli argomenti, ma so che mi perdonerete...è per una giusta causa!), non esistevano motivi per cui spingere questa pellicola? Chi diavolo è 'sto Steve McQueen, non era mica morto (cit.)? Ironia a parte, c'è grossa crisi (culturale). Indubbiamente Hunger è un film difficile e molto poco "pop" (aggiungo, critic mood on nella seconda parte di una bellezza indescrivibile, a partire dalla lunga sequenza con protagonisti Fassbender e Cunningham *foto, con una metafora Christi tutt'altro che scontata critic mood off), ma c'è anche da dire che con 'sta scusa del C'è crisi, vogliamo svagarci! e del C'è crisi, vogliamo un film che non ci faccia pensare ai nostri problemi lo spettatore si è creato un discreto alibi e ha proprio spento il cervello. 


Però, però, però.
Perchè c'è sempre un però, a mio avviso.


Se è vero che il pubblico, oramai, ce lo siamo giocato e buona parte dei critici è diventata troppo un volemose bene, c'è anche da dire che sono proprio gli stessi critici - quelli che si autodefiniscono un po' troppo snob -  che dovrebbero passarsi una manina sulla coscienza e fare un paio di conti col passato. Se il ruolo del critico è quello di vivisezionare un film, offrirne un'analisi e dargli/togliergli spessore culturale, bisogna capire come tutto questo è stato fatto fino ad ora e come ci si è rapportati con l'utente finale, ossia il pubblico. Perchè se il pubblico è diventato pecora e preferisce un film di Moccia ad uno di Bergman (giusto per citarne uno), un motivo ci sarà. E' facile prendersela con gli spettatori o i critici di bocca buona, scusate. E' un po' come accadeva a scuola, pensateci: quando ero un'adolescente brufolosa, le mie materie preferite erano letteratura italiana, greca e latina. Per quale motivo? Perchè avevo degli insegnanti che sono riusciti a trasmettermi il loro amore, il loro entusiasmo, mi hanno offerto gli strumenti per capire e decodificare quello che mi stavano insegnando. E invece detestavo matematica e filosofia per il motivo opposto. Chissà!


Per la proprietà transitiva, pensate a quante generazioni di critici (in questo caso, dei veri e propri insegnanti) si sono beati (e si beano tutt'ora) delle loro infinite conoscenze, utilizzando quasi un codice segreto, come una casta fastidiosa e inutile, detenendo buona parte del loro sapere in modo egoistico perchè...beh, il pubblico comune non capirebbe. Davvero? Vi faccio un altro esempio, e scusate se utilizzo sempre la mia esperienza personale...ma tant'è. Non posso classificarmi un critico di alto rango, certamente, ma nel mio piccolo posso considerarmi una buona conoscitrice di cinema, anche da un punto di vista accademico/culturale. Spesso, chiacchierando con persone meno esperte in materia (prendiamo una mia cara zia sulla sessantina o mia sorella), nel momento in cui inizi ad offrire un parere critico, ma al tempo stesso intellegibile (il che non vuol dire "banalizzare" o usare un basso registro), ti ritrovi un interlocutore incuriosito, che poi magari ti dice pure: "Ma sai che l'avevo snobbato perchè pensavo fosse solo un film pesante e basta? Lo guardo e poi ne parliamo...". 

E sicuramente io non ho l'esperienza e la conoscenza di Mereghetti&Co.

Se il problema fosse, dunque, una difficoltà di comunicazione tra le parti? Incazziamoci con i registi, incazziamoci con gli sceneggiatori, incazziamoci con gli attori. Ok, mi va bene. Ma motiviamo il tutto al pubblico, facciamo capire loro quale sia il problema, offriamo gli strumenti per valutare se una pellicola sia interessante o meno. 

INCURIOSIAMO, AFFAMIAMO.

E' a quel punto che il ruolo socio-culturale del critico avrebbe un senso.
Dico bene?





venerdì 20 aprile 2012

Le storie magiche di nonno Hayao

Sheeta e Pazu, i due protagonisti di "Laputa - Il castello nel cielo" (1986)
Ho un nonno nipponico. Sì beh, a sua totale insaputa. Mi ha adottata quando ero bambina e mi ha raccontato alcune delle fiabe più belle che abbia mai ascoltato. Il suo tratto nel disegno, così rotondo e morbido, i suoi colori e i suoi mondi incantati. E la scelta di preferire personaggi femminili, da rendere più facile la mia empatia con queste bambine catapultate in universi paralleli straordinari. 

Il mio adorato ojiisan è proprio lui: Hayao Miyazaki.

E ieri sera, sì, sono tornata un po' bambina. A distanza di 26 anni (ventisei) dalla sua uscita nelle sale nipponiche, la Lucky Red - fortunata detentrice dell'immenso impero narrativo di Miyazaki - ha deciso di distribuire nei cinema italiani quel piccolo capolavoro di Laputa - Il castello nel cielo (Tenkū no Shiro Rapyuta). In realtà, noi tutti nipoti miyazakiani (perchè siamo tantissimi, più di quanto si immagina!) abbiamo già avuto occasione di sfogliare questo racconto incantevole, un po' come accadeva nelle società segrete. Attraverso vie più o meno legali, abbiamo collezionato poco a poco tutte le sue fiabe, per poi guardarle, consumarle, riguardarle, interiorizzarle, amarle. La prima volta che ho visto Laputa è stato circa due anni fa. Era estate, pioveva...uno di quei temporali estivi, gonfi d'acqua. Due ore intense, una narrazione lenta lentissima, ma piacevole. Uno scambio di battute nel finale: "Dai, un po' è ispirato a Il mistero della pietra azzurra!", "Cacchio, è vero!". ...peccato che sia successo esattamente il contrario: è Il mistero della pietra azzurra ad aver attinto con voracità da questa storia mozzafiato. Ma come dar torto.

"Laputa - Il castello nel cielo" (1986) di H. Miyazaki
Non so se succede anche a voi, ma quando guardo un film di Miyazaki ho come l'impressione che la dimensione temporale si fermi improvvisamente. E' come se tutto intorno rimanga vittima di un incantesimo: le lancette dell'orologio si fermano, i tuoi vicini di poltrona si dissolvono. Sei tu e lo schermo, tu e quel mondo, tu e i suoi personaggi. Persino ieri, rumorosa proiezione aperta alla stampa e brulicante di bambini under 9 (di cui una, alle mie spalle, che ha infierito più volte nella mia poltrona, con calci davvero piacevoli), ho vissuto un momento quasi surreale. Ho dimenticato le ore, la mia età anagrafica, il mio nome e tutto il resto. Ho riso alle battute canzonatorie di quella vecchiaccia di Dola, ho assaporato le atmosfere steampunk di quel Pianeta Terra grezzo e povero, e poi l'incanto di quel paradiso perduto e irraggiungibile chiamato Laputa. C'è stata anche la lacrimuccia nascosta alla scoperta del robot in solitaria, ma quella è un'altra storia. 

La magia si è interrotta nel momento in cui i gestori del cinema, per cacciarci dalla sala, hanno acceso tutte le luci possibili e immaginabili. Dobbiamo carburare, dobbiamo immergerci nuovamente nella vita reale. Non è un'operazione così immediata.Abbiamo bisogno del nostro tempo!avrei voluto dirgli. Persino uno dei più cinici dei critici che conosco, nota roccia impenetrabile, è rimasto in silenzio, con un sorriso stampato in faccia. E difficilmente l'ho visto sorridere, credetemi. E per quanto sia certa che scriverà il suo "pezzo" di testa (ha comunque un'immagine distaccata da mantenere), il suo desiderio sarebbe quello di scrivere con il cuore. Un po' come ho fatto io, lasciando da parte "tematiche dell'autore", "fotografia", "mano registica", eccetera, eccetera, eccetera. Anche perchè, in un racconto così straordinario, non sono questi gli aspetti che ci interessano.

...forse è questo il mio problema.

Ma aspetto i vostri racconti di cuore su Laputa. 
O su qualsiasi altro capolavoro di nonno Hayao.


Nota a margine: Ho un vizio: l'incostanza. Non aspettatevi che aggiorni questo blog ogni santo giorno...potrei sparire per settimane, ma come Terminator "I will be back!".

venerdì 13 aprile 2012

Quando gli opening titles raccontano una storia.

I dipinti di Francis Bacon in "Ultimo tango a Parigi"
C'è una cosa che sopra ogni cosa mi affascina nel cinema: l'utilizzo degli opening titles nei film. Sembra un aspetto banale, buttato lì giusto per fare l'elenco del cast artistico e tecnico: ma pensate alla cura e all'intento registico racchiusi in quelle brevi sequenze. Piccole opere d'arte, che spesso diventano anche la cifra stilistica di un regista. Il primo che mi viene in mente, più che altro per affetto e stima personale, è certamente Tim Burton. Pensiamo agli intro dei due Batman (il mio preferito è il secondo, il vostro?) che portano la sua firma: la camera scivola lentamente, quasi a volerci condurre per mano nel suo mondo, un mondo orribile (se pensiamo alle fogne in cui scivola il port-enfant del Pinguino). Il suo intento è più esplicito in Edward mani di forbici (colonna sonora a cura di quel geniaccio di Danny Elfman), dove una porta che si spalanca lentamente diventa la chiara metafora di un "Seguimi, voglio raccontarti una storia...". Un po' come il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie...


Tim Burton, come altri registi, usa i title credits come tecnica introduttiva alla storia che vogliono raccontare, molto spesso giocando con degli oggetti feticcio presenti nel film. Ma pensiamo ad esempio all'uso che ne fa Steven Spielberg in Prova a prendermi, il comedy-drama che racconta la storia vera del truffatore Frank Abagnale. Punteggiato dalla meravigliosa colonna sonora di John Williams, in questo caso l'opening title ripercorre i punti chiave del film, in una sorta di riassunto animato davvero divertente (a firma del duo visionario Kuntzel e Deygas):


E poi c'è la poesia, scandita da un'opera come La cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, come in Toro Scatenato di Martin Scorsese.Uno degli intro più toccanti, che trasudano la solitudine e la malinconia del suo protagonista - un grandioso Robert De Niro, nei panni del pugile Jake La Motta  -mentre danza tirando pugni all'aria.Ma forse le immagini sono più incisive:


Potrei parlarvi ancora di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, con la musica erotica di Gato Barbieri e i dipinti stranianti (uno maschile e uno femminile, come la coppia dei personaggi) di Francis Bacon, che chiudono sulla prima drammatica sequenza di un Marlon Brando urlante "F***in God". O ancora, è al ritmo graffiante di Little Green Bag di The George Backer Selection, che si apre a ralenti Le iene di Quentin Tarantino, passando in rassegna i suoi protagonisti.

...eccetera, eccetera, eccetera.
Ancora in dubbio sull'importanza degli opening nei film?
Questi sono solo alcuni dei miei preferiti.
...i vostri?

giovedì 12 aprile 2012

"Titanic" e la generazione X al quadrato

Jack: Dove la porto signorina?
Rose: su una stella.

(Titanic)


Locandina di "Titanic" di J. Cameron (1997)
Dopo 15 anni e per la seconda volta nella mia vita (potete non crederci, ma è così!), lo scorso martedì sono andata al cinema a vedere Titanic. In 3D. Ebbene sì, mi sono fatta infinocchiare anche io con la storia del 3D, una scusa banale per riportarmi indietro nel tempo, quando a 12 anni varcai la soglia di un cinema di Napoli in compagnia di due dei miei cari amici di infanzia (Gianfry, Fede...chissà se voi lo ricordate!). 


1998: 
Andare al cinema da soli, all'epoca, era una specie di evento, un momento in cui si iniziava ad assaporare le prime conquiste d'indipendenza dai genitori. Ho ancora vivido il ricordo: pagammo il biglietto, e la cosa che mi aveva colpita più di tutti era la coda inimmaginabile di mie coetanee già alla loro quinta/sesta visione. In realtà, già sapevo come sarebbe andata a finire, ma non volevo mancare a quell'appuntamento. Un po' per la curiosità (cosa spingeva tutte le mie amiche a tornare a rivederlo più di una volta?), un po' perchè anche io ho vissuto come il 99,9% delle mie coetanee la fase DiCaprio (e chi lo nega, è una bugiarda). Ci accomodammo nelle nostre poltrone di velluto rosso, metà sala al centro, sgranocchiando del lurido e unto popcorn. Parte il film. Le prime urla e applausi di pre-adolescenti in piena esplosione ormonale, già preparate all'idea di incrociare presto lo sguardo di Leo DiCaprio, come lo chiamavano sul Cioè.


Leonardo DiCaprio in "Titanic" di J. Cameron (1997)
Eccolo (La scena è quella della foto, ma l'inquadratura è quella più stretta...). Quel dettaglio degli occhi. Urla, sospiri, fiati mozzati. Ricordo di aver avuto anche io una sottospecie di tuffo al cuore, ma nella mia leggendaria riservatezza, ho trattenuto commenti e già mi immaginavo una fuga d'amore con lui, in qualche isola sperduta del mondo. Un po' come in Laguna Blu. Il film procede, viene presentata Rose, un'allora in evidente sovrappeso Kate Winslet, verso cui la buona parte delle mie vicine commentò: "Ma questa cicciona con LEO?". Nutrivo verso di lei sentimenti contrastanti: ero affascinata dalla sua bellezza (quei capelli rossi su quegli occhi azzurri e quel viso tondo e latteo) e dalla sua bravura, ma al tempo stesso la odiavo. La odiavo perchè era la protagonista di una storia d'amore favolosa e sapevo che per colpa sua, alla fine, Jack Dawson sarebbe morto. E' difficile la mente di una dodicenne, me ne rendo conto. Si va avanti, la lunga agonia del Titanic che poi si spezza in due, la mia ansia nei confronti della morte per annegamento (ed è forse uno dei motivi per cui oggi detesto viaggiare in nave), e la valanga di lacrime delle ragazze a me vicine. Io non riuscivo a commuovermi, mi sentivo un'ebete. Eppure sono una dalla lacrima facile. Ma non riuscivo a piangere e questo mi creava frustrazione: avevo una sala in evidente stato di calamità naturale e io mi limitavo a pietrificarmi nella sedia. E poi il gran finale: Jack e Rose si ricongiungono (in Paradiso?) e vissero tutti felici e contenti. FINE. Stacco: My heart will go on  di Celine Dion ci ha portato lentamente alla realtà. Commenti post-film, il giorno dopo a scuola e nelle settimane successive....



2012:


Kate Winslet in "Titanic" di James Cameron (1997)

In questi 15 anni,
Titanic è passato diverse volte in tv. Non mi è mai venuta voglia di riguardarlo, anche perchè avrebbe un po' rovinato l'atmosfera che avevo respirato in quel cinema anni prima e perchè quei maledetti stronzi che lo avrebbero poi mandato in onda lo avrebbero infarcito di pubblicità per bene, trasformando una visione di già 3 ore e un quarto in una versione più simile a Via col vento. E poi sono cresciuta, non mi sarei più emozionata come un tempo, Leonardo (ex Leo) DiCaprio ha costruito nel tempo una carriera d'attore decisamente più credibile, Kate Winslet non era più la chiappo-culona dai capelli rossi di un tempo (ma un'attrice incantevole, consumata e arricchita da ruoli successivi cuciti su misura per lei), James Cameron pensava ai suoi omini blu di Avatar...insomma, altra storia. Finchè due mie ex amiche mi hanno mandato una mail proponendomi un revival Titanic al Bicocca Village. Massì, ho detto, sono in ballo, rivederlo al cinema non era la stessa cosa del riguardarlo in tv. Andiamo. 
Primo deja-vù: mentre sedevamo al tavolo del multisala, in attesa di entrare, attorno a noi c'erano almeno una quarantina di ragazze (più o meno della nostra età) in evidente stato di eccitazione nel rivedere al cinema il famigerato Titanic. Ho buttato l'orecchio a un paio: "Questa sarà la ventesima volta che lo vedo, ma rivederlo al cinema come tempo fa è un'altra cosa...". "E poi Leo era così piccolo...." (LEO? era dagli anni Novanta che non sentivo più chiamare DiCaprio LEO!). Entriamo, ci accomodiamo nelle nostre poltrone rosse, metà sala al centro (secondo deja-vù), 35 minuti di trailer e pubblicità (MALEDETTI MULTISALA, FALLITE!!!!), e FINALMENTE inizia il film. Per la prima volta, ho osservato le inquadrature del relitto e ho provato un senso di angoscia reale. Poco dopo arriva la scena del ritrovamento del ritratto, e ho iniziato a ridere dentro di me ripensando a quei gridolini isterici a seguito dello sguardo di Leonardo DiCaprio. Terzo deja-vù: STESSA SCENA, STESSA REAZIONE DELLE SPETTATRICI con alle spalle 15 anni in più. OHCAZZO! Sono scoppiata a ridere!  Un silenzio tombale ha accompagnato l'intera visione del film (ad eccezione del povero fidanzato trascinato a forza dalla ragazza, devastato da 3 ore di evidente rottura di palle). Per tutta la durata del film ho osservato i due protagonisti, profondamente diversi oggi ma la cui bravura, comunque, faceva già capolino. Lo ammetto, mi sono sentita vecchia. 


E pensare che all'epoca Kate Winslet aveva l'età attuale di mia sorella... 


I due protagonisti oggi...i 15 anni sono trascorsi anche per loro!
E le battute che a quei tempi non avresti capito, non sentire il peso del lunghissimo affondamento (una sorta di doc minuto per minuto di quanto avvenne davvero quella notte, ma a 12 anni cosa poteva interessarti se non la storia d'amore palliativa?)...le lancette dell'orologio scorrevano e non me ne sono accorta affatto. Così come allora, nel gran finale non è comparsa neanche una lacrima (anche se attorno sentivo singhiozzare senza freni), ma questa volta è venuta a mancare la frustrazione. Siamo rimaste ad ascoltare My heart will go on comode nelle nostre sedie, e come allora, un po' per ricongiungerci con la realtà del mondo esterno. Sono uscita leggera leggera, pur consapevole di certe ingenuità in alcuni punti della sceneggiatura e di qualche errorino qua e là. L'occhio da amante del cinema non mi ha abbandonata neanche un minuto (ehhh, i 15 anni di più pesano eccome!), ma c'è una cosa che ho apprezzato in questa operazione:  mi sono ricongiunta con il mio passato e, lo ammetto, mi è piaciuto molto.


E sapere che molte di noi, in fin dei conti, sono ancora un po' sognatrici. 
Non a caso, il cinema è il mio ricostituente preferito.
Anche nelle piccole cose.





mercoledì 11 aprile 2012

Storie di cinema. Con titoli italiani assurdi.

‎" I grandi non capiscono quanto ci si può sentire soli da bambini " (Se mi lasci, ti cancello)

Sfida.Quando uscì nelle sale Se mi lasci, ti cancello (e quando pronuncio questo titolo, un brivido mi percorre lungo la schiena), quanti di voi hanno preso seriamente in considerazione l'idea di non pagare il prezzo del biglietto spaventati dall'idea di trovarsi invischiati in qualche stronzata sentimentale? O, meglio ancora, quanti di voi hanno pensato seriamente di andare a scovare quell'imbecille che ha trasformato un verso di Alexander Pope (Eternal sunshine of the spotless mind, dalla poesia Eloisa to Abelard...azz, sembro quasi intelligente) in questa sottospecie di aborto della lingua italiana?

Già vedo diverse mani alzate in fondo all'aula. Probabilmente uno dei film a cui sono più legata da un punto di vista sentimentale (ma a cui dedicherò un post successivamente, una cosa per volta!), Eternal sunshine of the spotless mind è forse uno dei peggiori titoli adattati in italiano della storia del cinema contemporaneo. Ma immaginiamo se il titolo venisse tradotto dal nostro italiano all'inglese...l'effetto sarebbe alquanto ridicolo.

Se mi lasci ti cancello, di M. Gondry


In realtà ci sono tanti divertenti e liberi (LIBERISSIMI!) adattamenti italiani di pellicole straniere che fanno accapponare la pelle.

Ci lanciamo in questo gioco?

Se parli a 24 fotogrammi...

"A man tells so many stories, that he becomes the stories. They live on after him, and in that way he becomes immortal." (Big Fish)

"Big Fish" di T. Burton (2003)
Sinceramente, chi aveva bisogno di un altro blog di e sul cinema? Nessuno. Chissenefrega di quello che pensano tutti questi aspiranti critici, questi personaggi un po' imbolsiti, un po'sarcazzosòio, un po'"quel Midnight in Paris è una vera merda". In realtà, A 24 fotogrammi nasce con uno scopo molto diverso: vuole essere uno spazio in cui si raccontano storie sul cinema, quel contorno di parole che piace poco ai critici - troppo impegnati a bearsi della loro conoscenza suprema - uno spazio dove condividere una passione comune, scandita da 24 fotogrammi al secondo.

...e bla, bla, bla.

Beh, dopo questa pappardella introduttiva (che molto probabilmente avrete saltato già dopo le prime due righe), penso che sia giunta l'ora delle presentazioni. Ohnnnnnnooooo! Sì, sono una ragazza all'antica, mi piacciono tutte queste formalità. Nasco a Napoli 27 anni fa, città in cui ho lasciato il cuore all'età di 13 anni dopo essermi trasferita nella ridente Brianza monzese. Qui ho frequentato un pallosissimo quinquennio al liceo classico, il famigerato "Liceo Classico - Ginnasio B. U C I...o Z CC I...o in quelle poche volte che le lettere reggevano all'accidia dei bidelli, ZUCCHI". Da lì, il passo verso la mia passione, il cinema, è stato breve. L'ho studiato per cinque anni, ma soprattutto ho imparato a sventrarlo ed eviscerarlo con la minuzia di un medico legale. Fotogrammi, piani-sequenza, piano americano, campo lungo, la donna ragno, Neorealismo, Godard, Il tema degli animali in Kubrick, L'avventura e l'esperimento di Kulesov: questa è un po' di quella grammatica che ho acquisito in quegli anni, probabilmente i più intensi della mia vita.

Il cinema è stato da sempre il mio prozac.Sin da quando ero piccola, è stata la cura contro le mie paure, la noia, gli amici stronzi, le incertezze, le scelte esistenziali, eccetera, eccetera, eccetera. Ogni film ha al suo fianco un valore, una storia, un background, un significato. Sono sempre stata convinta che l'interpretazione di un film dipenda molto da uno stato mentale: non vi è mai capitato di provare sensazioni completamente opposte, guardando lo stesso film più di una volta? 

...ed è soprattutto per questo che nasce A 24 fotogrammi.  
Raccontiamoci un film.
O, se vi va, ve lo racconto io.