lunedì 30 aprile 2012

"Hunger"..of Cinema - Non è la solita storia di critici che si auto-compiacciono.

*Una scena tratta da Hunger di S. McQueen (2008)
Perchè non è tutta colpa del pubblico, dei registi e dei critici più terra terra.

Bisogna partire dalle caste.

E sradicarle.



Amo imparare. E amo, soprattutto, imparare a confrontarmi. Sto seguendo con interesse il dibattito sollevato da quel buon "vecchio" dizionario di cinema, noto anche come Paolo Mereghetti, che con un suo intervento sul Corriere di ieri intitolato Nuovo Cinema Populista ha mosso un paio di coscienze. E Mereghetti non la manda a raccontare, siamo sinceri: la sua è una riflessione molto dura sul ruolo socio-culturale svolto dai critici cinematografici italiani, intellettuali che hanno perso un po' la bussola inseguendo logiche prettamente commerciali e che, senza mezzi termini, si sono un po' rammolliti. Un tempo c'era chi si incazzava nei confronti di certi abbruttimenti culturali, alzava la voce, buttava giù frasi al vetriolo nei confronti di tal regista e di tal film, ovviamente a ragion veduta. Eccetera, eccetera. Ad appoggiare con un'ottima argomentazione il buon Mereghetti, c'è il (ben) più giovane critico Federico Gironi sul suo blog di Coming Soon, che conferma una tendenza alquanto bonaria della critica italiana contemporanea rispetto ad un determinato cinema (ma vi invito a leggere entrambi gli articoli per maggiore chiarezza personale, non vorrei non render merito alle loro riflessioni). 

Ed eccomi qui, oggi, a pormi un paio di domande, tentare di dare una qualche risposta e solleticare un po' il mio cervello in merito a questa questione. Che, vuoi anche un po' per coincidenza astrale, altro non è che un prolungamento della mia riflessione lasciata in sospeso ieri sera, dopo aver visto Hunger di Steve McQueen (Hunger, non Hunger Games...). Un film, come immagino saprete, che è arrivato in Italia con circa quattro anni di ritardo. Un po' troppi, aggiungo. Anni di riflessione? All'epoca Michael Fassbender non era un cazzo di nessuno (botteghinamente parlando) e, per quanto fosse già allora un gran bel pezzo di manzo (scusate la bassezza degli argomenti, ma so che mi perdonerete...è per una giusta causa!), non esistevano motivi per cui spingere questa pellicola? Chi diavolo è 'sto Steve McQueen, non era mica morto (cit.)? Ironia a parte, c'è grossa crisi (culturale). Indubbiamente Hunger è un film difficile e molto poco "pop" (aggiungo, critic mood on nella seconda parte di una bellezza indescrivibile, a partire dalla lunga sequenza con protagonisti Fassbender e Cunningham *foto, con una metafora Christi tutt'altro che scontata critic mood off), ma c'è anche da dire che con 'sta scusa del C'è crisi, vogliamo svagarci! e del C'è crisi, vogliamo un film che non ci faccia pensare ai nostri problemi lo spettatore si è creato un discreto alibi e ha proprio spento il cervello. 


Però, però, però.
Perchè c'è sempre un però, a mio avviso.


Se è vero che il pubblico, oramai, ce lo siamo giocato e buona parte dei critici è diventata troppo un volemose bene, c'è anche da dire che sono proprio gli stessi critici - quelli che si autodefiniscono un po' troppo snob -  che dovrebbero passarsi una manina sulla coscienza e fare un paio di conti col passato. Se il ruolo del critico è quello di vivisezionare un film, offrirne un'analisi e dargli/togliergli spessore culturale, bisogna capire come tutto questo è stato fatto fino ad ora e come ci si è rapportati con l'utente finale, ossia il pubblico. Perchè se il pubblico è diventato pecora e preferisce un film di Moccia ad uno di Bergman (giusto per citarne uno), un motivo ci sarà. E' facile prendersela con gli spettatori o i critici di bocca buona, scusate. E' un po' come accadeva a scuola, pensateci: quando ero un'adolescente brufolosa, le mie materie preferite erano letteratura italiana, greca e latina. Per quale motivo? Perchè avevo degli insegnanti che sono riusciti a trasmettermi il loro amore, il loro entusiasmo, mi hanno offerto gli strumenti per capire e decodificare quello che mi stavano insegnando. E invece detestavo matematica e filosofia per il motivo opposto. Chissà!


Per la proprietà transitiva, pensate a quante generazioni di critici (in questo caso, dei veri e propri insegnanti) si sono beati (e si beano tutt'ora) delle loro infinite conoscenze, utilizzando quasi un codice segreto, come una casta fastidiosa e inutile, detenendo buona parte del loro sapere in modo egoistico perchè...beh, il pubblico comune non capirebbe. Davvero? Vi faccio un altro esempio, e scusate se utilizzo sempre la mia esperienza personale...ma tant'è. Non posso classificarmi un critico di alto rango, certamente, ma nel mio piccolo posso considerarmi una buona conoscitrice di cinema, anche da un punto di vista accademico/culturale. Spesso, chiacchierando con persone meno esperte in materia (prendiamo una mia cara zia sulla sessantina o mia sorella), nel momento in cui inizi ad offrire un parere critico, ma al tempo stesso intellegibile (il che non vuol dire "banalizzare" o usare un basso registro), ti ritrovi un interlocutore incuriosito, che poi magari ti dice pure: "Ma sai che l'avevo snobbato perchè pensavo fosse solo un film pesante e basta? Lo guardo e poi ne parliamo...". 

E sicuramente io non ho l'esperienza e la conoscenza di Mereghetti&Co.

Se il problema fosse, dunque, una difficoltà di comunicazione tra le parti? Incazziamoci con i registi, incazziamoci con gli sceneggiatori, incazziamoci con gli attori. Ok, mi va bene. Ma motiviamo il tutto al pubblico, facciamo capire loro quale sia il problema, offriamo gli strumenti per valutare se una pellicola sia interessante o meno. 

INCURIOSIAMO, AFFAMIAMO.

E' a quel punto che il ruolo socio-culturale del critico avrebbe un senso.
Dico bene?





venerdì 20 aprile 2012

Le storie magiche di nonno Hayao

Sheeta e Pazu, i due protagonisti di "Laputa - Il castello nel cielo" (1986)
Ho un nonno nipponico. Sì beh, a sua totale insaputa. Mi ha adottata quando ero bambina e mi ha raccontato alcune delle fiabe più belle che abbia mai ascoltato. Il suo tratto nel disegno, così rotondo e morbido, i suoi colori e i suoi mondi incantati. E la scelta di preferire personaggi femminili, da rendere più facile la mia empatia con queste bambine catapultate in universi paralleli straordinari. 

Il mio adorato ojiisan è proprio lui: Hayao Miyazaki.

E ieri sera, sì, sono tornata un po' bambina. A distanza di 26 anni (ventisei) dalla sua uscita nelle sale nipponiche, la Lucky Red - fortunata detentrice dell'immenso impero narrativo di Miyazaki - ha deciso di distribuire nei cinema italiani quel piccolo capolavoro di Laputa - Il castello nel cielo (Tenkū no Shiro Rapyuta). In realtà, noi tutti nipoti miyazakiani (perchè siamo tantissimi, più di quanto si immagina!) abbiamo già avuto occasione di sfogliare questo racconto incantevole, un po' come accadeva nelle società segrete. Attraverso vie più o meno legali, abbiamo collezionato poco a poco tutte le sue fiabe, per poi guardarle, consumarle, riguardarle, interiorizzarle, amarle. La prima volta che ho visto Laputa è stato circa due anni fa. Era estate, pioveva...uno di quei temporali estivi, gonfi d'acqua. Due ore intense, una narrazione lenta lentissima, ma piacevole. Uno scambio di battute nel finale: "Dai, un po' è ispirato a Il mistero della pietra azzurra!", "Cacchio, è vero!". ...peccato che sia successo esattamente il contrario: è Il mistero della pietra azzurra ad aver attinto con voracità da questa storia mozzafiato. Ma come dar torto.

"Laputa - Il castello nel cielo" (1986) di H. Miyazaki
Non so se succede anche a voi, ma quando guardo un film di Miyazaki ho come l'impressione che la dimensione temporale si fermi improvvisamente. E' come se tutto intorno rimanga vittima di un incantesimo: le lancette dell'orologio si fermano, i tuoi vicini di poltrona si dissolvono. Sei tu e lo schermo, tu e quel mondo, tu e i suoi personaggi. Persino ieri, rumorosa proiezione aperta alla stampa e brulicante di bambini under 9 (di cui una, alle mie spalle, che ha infierito più volte nella mia poltrona, con calci davvero piacevoli), ho vissuto un momento quasi surreale. Ho dimenticato le ore, la mia età anagrafica, il mio nome e tutto il resto. Ho riso alle battute canzonatorie di quella vecchiaccia di Dola, ho assaporato le atmosfere steampunk di quel Pianeta Terra grezzo e povero, e poi l'incanto di quel paradiso perduto e irraggiungibile chiamato Laputa. C'è stata anche la lacrimuccia nascosta alla scoperta del robot in solitaria, ma quella è un'altra storia. 

La magia si è interrotta nel momento in cui i gestori del cinema, per cacciarci dalla sala, hanno acceso tutte le luci possibili e immaginabili. Dobbiamo carburare, dobbiamo immergerci nuovamente nella vita reale. Non è un'operazione così immediata.Abbiamo bisogno del nostro tempo!avrei voluto dirgli. Persino uno dei più cinici dei critici che conosco, nota roccia impenetrabile, è rimasto in silenzio, con un sorriso stampato in faccia. E difficilmente l'ho visto sorridere, credetemi. E per quanto sia certa che scriverà il suo "pezzo" di testa (ha comunque un'immagine distaccata da mantenere), il suo desiderio sarebbe quello di scrivere con il cuore. Un po' come ho fatto io, lasciando da parte "tematiche dell'autore", "fotografia", "mano registica", eccetera, eccetera, eccetera. Anche perchè, in un racconto così straordinario, non sono questi gli aspetti che ci interessano.

...forse è questo il mio problema.

Ma aspetto i vostri racconti di cuore su Laputa. 
O su qualsiasi altro capolavoro di nonno Hayao.


Nota a margine: Ho un vizio: l'incostanza. Non aspettatevi che aggiorni questo blog ogni santo giorno...potrei sparire per settimane, ma come Terminator "I will be back!".

venerdì 13 aprile 2012

Quando gli opening titles raccontano una storia.

I dipinti di Francis Bacon in "Ultimo tango a Parigi"
C'è una cosa che sopra ogni cosa mi affascina nel cinema: l'utilizzo degli opening titles nei film. Sembra un aspetto banale, buttato lì giusto per fare l'elenco del cast artistico e tecnico: ma pensate alla cura e all'intento registico racchiusi in quelle brevi sequenze. Piccole opere d'arte, che spesso diventano anche la cifra stilistica di un regista. Il primo che mi viene in mente, più che altro per affetto e stima personale, è certamente Tim Burton. Pensiamo agli intro dei due Batman (il mio preferito è il secondo, il vostro?) che portano la sua firma: la camera scivola lentamente, quasi a volerci condurre per mano nel suo mondo, un mondo orribile (se pensiamo alle fogne in cui scivola il port-enfant del Pinguino). Il suo intento è più esplicito in Edward mani di forbici (colonna sonora a cura di quel geniaccio di Danny Elfman), dove una porta che si spalanca lentamente diventa la chiara metafora di un "Seguimi, voglio raccontarti una storia...". Un po' come il Bianconiglio di Alice nel paese delle meraviglie...


Tim Burton, come altri registi, usa i title credits come tecnica introduttiva alla storia che vogliono raccontare, molto spesso giocando con degli oggetti feticcio presenti nel film. Ma pensiamo ad esempio all'uso che ne fa Steven Spielberg in Prova a prendermi, il comedy-drama che racconta la storia vera del truffatore Frank Abagnale. Punteggiato dalla meravigliosa colonna sonora di John Williams, in questo caso l'opening title ripercorre i punti chiave del film, in una sorta di riassunto animato davvero divertente (a firma del duo visionario Kuntzel e Deygas):


E poi c'è la poesia, scandita da un'opera come La cavalleria rusticana di Pietro Mascagni, come in Toro Scatenato di Martin Scorsese.Uno degli intro più toccanti, che trasudano la solitudine e la malinconia del suo protagonista - un grandioso Robert De Niro, nei panni del pugile Jake La Motta  -mentre danza tirando pugni all'aria.Ma forse le immagini sono più incisive:


Potrei parlarvi ancora di Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci, con la musica erotica di Gato Barbieri e i dipinti stranianti (uno maschile e uno femminile, come la coppia dei personaggi) di Francis Bacon, che chiudono sulla prima drammatica sequenza di un Marlon Brando urlante "F***in God". O ancora, è al ritmo graffiante di Little Green Bag di The George Backer Selection, che si apre a ralenti Le iene di Quentin Tarantino, passando in rassegna i suoi protagonisti.

...eccetera, eccetera, eccetera.
Ancora in dubbio sull'importanza degli opening nei film?
Questi sono solo alcuni dei miei preferiti.
...i vostri?

giovedì 12 aprile 2012

"Titanic" e la generazione X al quadrato

Jack: Dove la porto signorina?
Rose: su una stella.

(Titanic)


Locandina di "Titanic" di J. Cameron (1997)
Dopo 15 anni e per la seconda volta nella mia vita (potete non crederci, ma è così!), lo scorso martedì sono andata al cinema a vedere Titanic. In 3D. Ebbene sì, mi sono fatta infinocchiare anche io con la storia del 3D, una scusa banale per riportarmi indietro nel tempo, quando a 12 anni varcai la soglia di un cinema di Napoli in compagnia di due dei miei cari amici di infanzia (Gianfry, Fede...chissà se voi lo ricordate!). 


1998: 
Andare al cinema da soli, all'epoca, era una specie di evento, un momento in cui si iniziava ad assaporare le prime conquiste d'indipendenza dai genitori. Ho ancora vivido il ricordo: pagammo il biglietto, e la cosa che mi aveva colpita più di tutti era la coda inimmaginabile di mie coetanee già alla loro quinta/sesta visione. In realtà, già sapevo come sarebbe andata a finire, ma non volevo mancare a quell'appuntamento. Un po' per la curiosità (cosa spingeva tutte le mie amiche a tornare a rivederlo più di una volta?), un po' perchè anche io ho vissuto come il 99,9% delle mie coetanee la fase DiCaprio (e chi lo nega, è una bugiarda). Ci accomodammo nelle nostre poltrone di velluto rosso, metà sala al centro, sgranocchiando del lurido e unto popcorn. Parte il film. Le prime urla e applausi di pre-adolescenti in piena esplosione ormonale, già preparate all'idea di incrociare presto lo sguardo di Leo DiCaprio, come lo chiamavano sul Cioè.


Leonardo DiCaprio in "Titanic" di J. Cameron (1997)
Eccolo (La scena è quella della foto, ma l'inquadratura è quella più stretta...). Quel dettaglio degli occhi. Urla, sospiri, fiati mozzati. Ricordo di aver avuto anche io una sottospecie di tuffo al cuore, ma nella mia leggendaria riservatezza, ho trattenuto commenti e già mi immaginavo una fuga d'amore con lui, in qualche isola sperduta del mondo. Un po' come in Laguna Blu. Il film procede, viene presentata Rose, un'allora in evidente sovrappeso Kate Winslet, verso cui la buona parte delle mie vicine commentò: "Ma questa cicciona con LEO?". Nutrivo verso di lei sentimenti contrastanti: ero affascinata dalla sua bellezza (quei capelli rossi su quegli occhi azzurri e quel viso tondo e latteo) e dalla sua bravura, ma al tempo stesso la odiavo. La odiavo perchè era la protagonista di una storia d'amore favolosa e sapevo che per colpa sua, alla fine, Jack Dawson sarebbe morto. E' difficile la mente di una dodicenne, me ne rendo conto. Si va avanti, la lunga agonia del Titanic che poi si spezza in due, la mia ansia nei confronti della morte per annegamento (ed è forse uno dei motivi per cui oggi detesto viaggiare in nave), e la valanga di lacrime delle ragazze a me vicine. Io non riuscivo a commuovermi, mi sentivo un'ebete. Eppure sono una dalla lacrima facile. Ma non riuscivo a piangere e questo mi creava frustrazione: avevo una sala in evidente stato di calamità naturale e io mi limitavo a pietrificarmi nella sedia. E poi il gran finale: Jack e Rose si ricongiungono (in Paradiso?) e vissero tutti felici e contenti. FINE. Stacco: My heart will go on  di Celine Dion ci ha portato lentamente alla realtà. Commenti post-film, il giorno dopo a scuola e nelle settimane successive....



2012:


Kate Winslet in "Titanic" di James Cameron (1997)

In questi 15 anni,
Titanic è passato diverse volte in tv. Non mi è mai venuta voglia di riguardarlo, anche perchè avrebbe un po' rovinato l'atmosfera che avevo respirato in quel cinema anni prima e perchè quei maledetti stronzi che lo avrebbero poi mandato in onda lo avrebbero infarcito di pubblicità per bene, trasformando una visione di già 3 ore e un quarto in una versione più simile a Via col vento. E poi sono cresciuta, non mi sarei più emozionata come un tempo, Leonardo (ex Leo) DiCaprio ha costruito nel tempo una carriera d'attore decisamente più credibile, Kate Winslet non era più la chiappo-culona dai capelli rossi di un tempo (ma un'attrice incantevole, consumata e arricchita da ruoli successivi cuciti su misura per lei), James Cameron pensava ai suoi omini blu di Avatar...insomma, altra storia. Finchè due mie ex amiche mi hanno mandato una mail proponendomi un revival Titanic al Bicocca Village. Massì, ho detto, sono in ballo, rivederlo al cinema non era la stessa cosa del riguardarlo in tv. Andiamo. 
Primo deja-vù: mentre sedevamo al tavolo del multisala, in attesa di entrare, attorno a noi c'erano almeno una quarantina di ragazze (più o meno della nostra età) in evidente stato di eccitazione nel rivedere al cinema il famigerato Titanic. Ho buttato l'orecchio a un paio: "Questa sarà la ventesima volta che lo vedo, ma rivederlo al cinema come tempo fa è un'altra cosa...". "E poi Leo era così piccolo...." (LEO? era dagli anni Novanta che non sentivo più chiamare DiCaprio LEO!). Entriamo, ci accomodiamo nelle nostre poltrone rosse, metà sala al centro (secondo deja-vù), 35 minuti di trailer e pubblicità (MALEDETTI MULTISALA, FALLITE!!!!), e FINALMENTE inizia il film. Per la prima volta, ho osservato le inquadrature del relitto e ho provato un senso di angoscia reale. Poco dopo arriva la scena del ritrovamento del ritratto, e ho iniziato a ridere dentro di me ripensando a quei gridolini isterici a seguito dello sguardo di Leonardo DiCaprio. Terzo deja-vù: STESSA SCENA, STESSA REAZIONE DELLE SPETTATRICI con alle spalle 15 anni in più. OHCAZZO! Sono scoppiata a ridere!  Un silenzio tombale ha accompagnato l'intera visione del film (ad eccezione del povero fidanzato trascinato a forza dalla ragazza, devastato da 3 ore di evidente rottura di palle). Per tutta la durata del film ho osservato i due protagonisti, profondamente diversi oggi ma la cui bravura, comunque, faceva già capolino. Lo ammetto, mi sono sentita vecchia. 


E pensare che all'epoca Kate Winslet aveva l'età attuale di mia sorella... 


I due protagonisti oggi...i 15 anni sono trascorsi anche per loro!
E le battute che a quei tempi non avresti capito, non sentire il peso del lunghissimo affondamento (una sorta di doc minuto per minuto di quanto avvenne davvero quella notte, ma a 12 anni cosa poteva interessarti se non la storia d'amore palliativa?)...le lancette dell'orologio scorrevano e non me ne sono accorta affatto. Così come allora, nel gran finale non è comparsa neanche una lacrima (anche se attorno sentivo singhiozzare senza freni), ma questa volta è venuta a mancare la frustrazione. Siamo rimaste ad ascoltare My heart will go on comode nelle nostre sedie, e come allora, un po' per ricongiungerci con la realtà del mondo esterno. Sono uscita leggera leggera, pur consapevole di certe ingenuità in alcuni punti della sceneggiatura e di qualche errorino qua e là. L'occhio da amante del cinema non mi ha abbandonata neanche un minuto (ehhh, i 15 anni di più pesano eccome!), ma c'è una cosa che ho apprezzato in questa operazione:  mi sono ricongiunta con il mio passato e, lo ammetto, mi è piaciuto molto.


E sapere che molte di noi, in fin dei conti, sono ancora un po' sognatrici. 
Non a caso, il cinema è il mio ricostituente preferito.
Anche nelle piccole cose.





mercoledì 11 aprile 2012

Storie di cinema. Con titoli italiani assurdi.

‎" I grandi non capiscono quanto ci si può sentire soli da bambini " (Se mi lasci, ti cancello)

Sfida.Quando uscì nelle sale Se mi lasci, ti cancello (e quando pronuncio questo titolo, un brivido mi percorre lungo la schiena), quanti di voi hanno preso seriamente in considerazione l'idea di non pagare il prezzo del biglietto spaventati dall'idea di trovarsi invischiati in qualche stronzata sentimentale? O, meglio ancora, quanti di voi hanno pensato seriamente di andare a scovare quell'imbecille che ha trasformato un verso di Alexander Pope (Eternal sunshine of the spotless mind, dalla poesia Eloisa to Abelard...azz, sembro quasi intelligente) in questa sottospecie di aborto della lingua italiana?

Già vedo diverse mani alzate in fondo all'aula. Probabilmente uno dei film a cui sono più legata da un punto di vista sentimentale (ma a cui dedicherò un post successivamente, una cosa per volta!), Eternal sunshine of the spotless mind è forse uno dei peggiori titoli adattati in italiano della storia del cinema contemporaneo. Ma immaginiamo se il titolo venisse tradotto dal nostro italiano all'inglese...l'effetto sarebbe alquanto ridicolo.

Se mi lasci ti cancello, di M. Gondry


In realtà ci sono tanti divertenti e liberi (LIBERISSIMI!) adattamenti italiani di pellicole straniere che fanno accapponare la pelle.

Ci lanciamo in questo gioco?

Se parli a 24 fotogrammi...

"A man tells so many stories, that he becomes the stories. They live on after him, and in that way he becomes immortal." (Big Fish)

"Big Fish" di T. Burton (2003)
Sinceramente, chi aveva bisogno di un altro blog di e sul cinema? Nessuno. Chissenefrega di quello che pensano tutti questi aspiranti critici, questi personaggi un po' imbolsiti, un po'sarcazzosòio, un po'"quel Midnight in Paris è una vera merda". In realtà, A 24 fotogrammi nasce con uno scopo molto diverso: vuole essere uno spazio in cui si raccontano storie sul cinema, quel contorno di parole che piace poco ai critici - troppo impegnati a bearsi della loro conoscenza suprema - uno spazio dove condividere una passione comune, scandita da 24 fotogrammi al secondo.

...e bla, bla, bla.

Beh, dopo questa pappardella introduttiva (che molto probabilmente avrete saltato già dopo le prime due righe), penso che sia giunta l'ora delle presentazioni. Ohnnnnnnooooo! Sì, sono una ragazza all'antica, mi piacciono tutte queste formalità. Nasco a Napoli 27 anni fa, città in cui ho lasciato il cuore all'età di 13 anni dopo essermi trasferita nella ridente Brianza monzese. Qui ho frequentato un pallosissimo quinquennio al liceo classico, il famigerato "Liceo Classico - Ginnasio B. U C I...o Z CC I...o in quelle poche volte che le lettere reggevano all'accidia dei bidelli, ZUCCHI". Da lì, il passo verso la mia passione, il cinema, è stato breve. L'ho studiato per cinque anni, ma soprattutto ho imparato a sventrarlo ed eviscerarlo con la minuzia di un medico legale. Fotogrammi, piani-sequenza, piano americano, campo lungo, la donna ragno, Neorealismo, Godard, Il tema degli animali in Kubrick, L'avventura e l'esperimento di Kulesov: questa è un po' di quella grammatica che ho acquisito in quegli anni, probabilmente i più intensi della mia vita.

Il cinema è stato da sempre il mio prozac.Sin da quando ero piccola, è stata la cura contro le mie paure, la noia, gli amici stronzi, le incertezze, le scelte esistenziali, eccetera, eccetera, eccetera. Ogni film ha al suo fianco un valore, una storia, un background, un significato. Sono sempre stata convinta che l'interpretazione di un film dipenda molto da uno stato mentale: non vi è mai capitato di provare sensazioni completamente opposte, guardando lo stesso film più di una volta? 

...ed è soprattutto per questo che nasce A 24 fotogrammi.  
Raccontiamoci un film.
O, se vi va, ve lo racconto io.