venerdì 20 aprile 2012

Le storie magiche di nonno Hayao

Sheeta e Pazu, i due protagonisti di "Laputa - Il castello nel cielo" (1986)
Ho un nonno nipponico. Sì beh, a sua totale insaputa. Mi ha adottata quando ero bambina e mi ha raccontato alcune delle fiabe più belle che abbia mai ascoltato. Il suo tratto nel disegno, così rotondo e morbido, i suoi colori e i suoi mondi incantati. E la scelta di preferire personaggi femminili, da rendere più facile la mia empatia con queste bambine catapultate in universi paralleli straordinari. 

Il mio adorato ojiisan è proprio lui: Hayao Miyazaki.

E ieri sera, sì, sono tornata un po' bambina. A distanza di 26 anni (ventisei) dalla sua uscita nelle sale nipponiche, la Lucky Red - fortunata detentrice dell'immenso impero narrativo di Miyazaki - ha deciso di distribuire nei cinema italiani quel piccolo capolavoro di Laputa - Il castello nel cielo (Tenkū no Shiro Rapyuta). In realtà, noi tutti nipoti miyazakiani (perchè siamo tantissimi, più di quanto si immagina!) abbiamo già avuto occasione di sfogliare questo racconto incantevole, un po' come accadeva nelle società segrete. Attraverso vie più o meno legali, abbiamo collezionato poco a poco tutte le sue fiabe, per poi guardarle, consumarle, riguardarle, interiorizzarle, amarle. La prima volta che ho visto Laputa è stato circa due anni fa. Era estate, pioveva...uno di quei temporali estivi, gonfi d'acqua. Due ore intense, una narrazione lenta lentissima, ma piacevole. Uno scambio di battute nel finale: "Dai, un po' è ispirato a Il mistero della pietra azzurra!", "Cacchio, è vero!". ...peccato che sia successo esattamente il contrario: è Il mistero della pietra azzurra ad aver attinto con voracità da questa storia mozzafiato. Ma come dar torto.

"Laputa - Il castello nel cielo" (1986) di H. Miyazaki
Non so se succede anche a voi, ma quando guardo un film di Miyazaki ho come l'impressione che la dimensione temporale si fermi improvvisamente. E' come se tutto intorno rimanga vittima di un incantesimo: le lancette dell'orologio si fermano, i tuoi vicini di poltrona si dissolvono. Sei tu e lo schermo, tu e quel mondo, tu e i suoi personaggi. Persino ieri, rumorosa proiezione aperta alla stampa e brulicante di bambini under 9 (di cui una, alle mie spalle, che ha infierito più volte nella mia poltrona, con calci davvero piacevoli), ho vissuto un momento quasi surreale. Ho dimenticato le ore, la mia età anagrafica, il mio nome e tutto il resto. Ho riso alle battute canzonatorie di quella vecchiaccia di Dola, ho assaporato le atmosfere steampunk di quel Pianeta Terra grezzo e povero, e poi l'incanto di quel paradiso perduto e irraggiungibile chiamato Laputa. C'è stata anche la lacrimuccia nascosta alla scoperta del robot in solitaria, ma quella è un'altra storia. 

La magia si è interrotta nel momento in cui i gestori del cinema, per cacciarci dalla sala, hanno acceso tutte le luci possibili e immaginabili. Dobbiamo carburare, dobbiamo immergerci nuovamente nella vita reale. Non è un'operazione così immediata.Abbiamo bisogno del nostro tempo!avrei voluto dirgli. Persino uno dei più cinici dei critici che conosco, nota roccia impenetrabile, è rimasto in silenzio, con un sorriso stampato in faccia. E difficilmente l'ho visto sorridere, credetemi. E per quanto sia certa che scriverà il suo "pezzo" di testa (ha comunque un'immagine distaccata da mantenere), il suo desiderio sarebbe quello di scrivere con il cuore. Un po' come ho fatto io, lasciando da parte "tematiche dell'autore", "fotografia", "mano registica", eccetera, eccetera, eccetera. Anche perchè, in un racconto così straordinario, non sono questi gli aspetti che ci interessano.

...forse è questo il mio problema.

Ma aspetto i vostri racconti di cuore su Laputa. 
O su qualsiasi altro capolavoro di nonno Hayao.


Nota a margine: Ho un vizio: l'incostanza. Non aspettatevi che aggiorni questo blog ogni santo giorno...potrei sparire per settimane, ma come Terminator "I will be back!".

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